Negli ultimi mesi, il conflitto commerciale tra Cina e Stati Uniti ha vissuto un’escalation fatta di dazi incrociati, tensioni geopolitiche e interruzioni nelle catene di approvvigionamento globali. Tuttavia, giugno ha segnato una svolta potenzialmente significativa: le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono balzate del 32,4% su base mensile, grazie a un accordo temporaneo che ha allentato alcune delle restrizioni più severe imposte dalle due superpotenze.
È un primo segnale di disgelo, seppur fragile, che apre la strada a un possibile riavvicinamento, in un contesto in cui la posta in gioco non è solo commerciale, ma anche strategica.
Qual è stato il ruolo delle terre rare in questo nuovo equilibrio? E cosa aspettarsi dalla diplomazia tra Xi Jinping e Donald Trump nei prossimi mesi?
Terre rare: il cuore strategico del compromesso commerciale
Tra i principali protagonisti del rimbalzo dell’export cinese verso gli Stati Uniti ci sono le terre rare, un gruppo di 17 elementi chimici essenziali per la produzione di dispositivi elettronici avanzati, veicoli elettrici, turbine eoliche e sistemi d’arma ad alta tecnologia. A giugno, le esportazioni cinesi di questi materiali sono aumentate del 32% su base annua, dopo il blocco imposto da Pechino ad aprile in risposta alle nuove tariffe americane. Quel blocco aveva messo in crisi diverse filiere produttive statunitensi, sottolineando quanto l’economia americana sia ancora dipendente da materie prime controllate quasi esclusivamente dalla Cina, che detiene oltre l’80% della raffinazione globale di terre rare.
Il recente accordo, sebbene provvisorio, ha riaperto questo flusso cruciale, rispondendo alle pressioni dell’industria statunitense — in particolare quella della difesa — e segnando un punto di svolta nei rapporti bilaterali. In cambio, Washington ha alleggerito il divieto di esportazione su alcuni software strategici per l’industria dei semiconduttori, gettando le basi per un compromesso più ampio e strutturato.
La leva strategica di pechino: tra minerali e monopoli tecnologici
Il dominio cinese nel settore delle terre rare non è solo un vantaggio commerciale, ma una vera e propria arma geopolitica. Pechino ha dimostrato di saper utilizzare con maestria questo potere nelle trattative con Washington. La sospensione delle esportazioni di aprile ha evidenziato la vulnerabilità degli Stati Uniti, incapaci di sostituire rapidamente queste risorse fondamentali per l’industria tecnologica e militare.
Secondo Franco Bernabè, ex AD di Eni e Tim, intervistato da La Stampa, «la Cina ha il coltello dalla parte del manico: monopolio dei magneti permanenti, controllo delle terre rare, e accesso privilegiato a componenti vitali per la continuità produttiva dell’industria elettronica».
In questo contesto, la Cina non si è limitata a difendersi dalle sanzioni, ma ha rilanciato, mostrando di poter influenzare le scelte strategiche di Washington. E proprio il controllo delle terre rare è stato decisivo per ottenere, almeno in parte, concessioni americane. Il messaggio è chiaro: nel nuovo equilibrio globale, la tecnologia è la vera posta in gioco e Pechino ha le risorse per orientarne le dinamiche.
La diplomazia delle tregue: ginevra e londra come snodi chiave
Le trattative tra Cina e Stati Uniti hanno avuto due momenti fondamentali negli incontri di Ginevra e Londra, dove si è raggiunto un fragile armistizio commerciale. Per Pechino, questi accordi rappresentano una conferma dell’efficacia della propria strategia: mostrare forza senza rinunciare alla negoziazione. La tregua, salutata dai media cinesi come un trionfo diplomatico, ha permesso alla Cina di riattivare le esportazioni di terre rare e di ottenere una distensione temporanea dalle misure protezionistiche americane, senza dare l’impressione di cedere.
Il presidente Xi Jinping ha mantenuto una linea dura fino all’ultimo: ha accettato un colloquio diretto con Donald Trump solo dopo il raggiungimento dell’accordo, sottolineando la posizione di forza cinese e ribadendo la linea della “resistenza contro l’unilateralismo”.
Il messaggio diplomatico è doppio: Pechino non teme lo scontro, ma è disposta a collaborare se le condizioni sono di rispetto reciproco. In uno scenario internazionale dove le alleanze sono sempre più fluide, la Cina mostra così di poter giocare da protagonista, non da comprimaria.
Dialogo riaperto: a kuala lumpur il primo segnale di distensione politica
A conferma del clima di cauta distensione, nei giorni scorsi si è tenuto a Kuala Lumpur, in Malesia, un incontro tra i due massimi rappresentanti diplomatici: il segretario di Stato statunitense Marco Rubio e il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. L’incontro, avvenuto a margine del vertice ASEAN, è stato definito da entrambe le parti “costruttivo”, segnalando una volontà comune di non peggiorare ulteriormente i rapporti e di evitare nuove escalation.
Wang Yi ha dichiarato che il colloquio si è svolto in “uno spirito di reciproco rispetto”, sottolineando quattro obiettivi chiave: rafforzare l’impegno, evitare errori di valutazione, gestire le divergenze ed espandere la cooperazione. Un lessico misurato ma significativo, che rappresenta il tentativo di trasformare il fragile armistizio commerciale in un dialogo più strutturato e duraturo. Dopo mesi di silenzio e provocazioni, il ritorno al tavolo del confronto rappresenta un passo non banale, anche se i margini di instabilità restano elevati.
Trump pronto al viaggio in cina: una mossa simbolica dalle forti implicazioni
Tra le ipotesi più significative emerse dopo il riavvio del dialogo, c’è quella di una visita ufficiale di Donald Trump in Cina entro la fine dell’anno. Se confermata, rappresenterebbe non solo un evento simbolico, ma anche un segnale concreto di cambiamento nei rapporti di forza tra le due potenze. L’ultima visita risale al 2017, quando fu Xi Jinping a recarsi negli Stati Uniti, accettando l’invito a Mar-a-Lago. Ora, in un rovesciamento carico di significato diplomatico, potrebbe essere Trump a fare il primo passo.
Per la narrativa cinese, questa inversione di ruoli ha un valore strategico: dimostrerebbe che, a differenza di otto anni fa, Pechino si presenta al tavolo delle trattative da una posizione di maggiore forza.
In un momento storico in cui l’equilibrio globale è sempre più frammentato e il peso dell’Asia cresce, anche le mosse più formali diventano strumenti di influenza. Una visita presidenziale, se ben orchestrata, potrebbe trasformarsi nel trampolino per un nuovo equilibrio commerciale e diplomatico tra i due giganti.